Se il capo sbotta senza ragione o il collega sembra non comprendere le istruzioni, la responsabilità potrebbe essere né loro, né nostra. Gli americani lo chiamano generational divide ed è un problema che tocca i team composti da persone di età molto diversa. Ciascuna generazione comunica con le altre usando il proprio stile, con il risultato che interagire fra colleghi diventa complicato, scatenando, in qualche caso, veri e propri conflitti.
A ogni generazione il suo divide
Gli screzi tra una generazione e l’altra non sono certo una novità: siamo stati tutti adolescenti. Ma il generational divide oggi è più evidente che in passato e può manifestarsi in micro-incomprensioni spesso sottovalutate. Negli uffici-tipo è facile vedere lavorare fianco a fianco almeno tre classi di età, ciascuna con valori, stile comunicativo e forma mentis peculiari.
- Gli ultracinquantenni secondo alcuni studi sono percepiti dalle altre generazioni come “poco accomodanti”, “eccessivamente rigidi” e dotati di una forte etica del lavoro. Uno dei generational divide più frequenti per questa categoria si misura nelle modalità scelte per comunicare. Un colloquio vis-à-vis o una telefonata sono in genere la forma di interazione più naturale per un over 50, che ama gli scambi lenti e contestualizzati. Se in squadra entra un millennial, abituato ai ritmi dei videogame e alle risposte telegrafiche di WhatsApp, è preferibile tenerlo presente.
- La generazione X. I nati fra i primi anni 60 e la fine degli anni 70 sono cresciuti in un periodo di intensi cambiamenti politici e sociali. Nei corsi di Leadership delle organizzioni della Rider University gli “X-ers” sono classificati come lavoratori flessibili e una certa apertura verso l’innovazione, ma anche soggetti a insofferenza per le regole e l’autorità. Cautele da adottare in ufficio: allentare le regole più stringenti, come hanno fatto le aziende che hanno introdotto un “casual friday” per l’abbigliamento o hanno aperto le porte agli animali domestici dei collaboratori.
- È con i millennial che si misura il salto generazionale più ripido: nativi digitali, tendono a utilizzare i canali tecnologici spesso a scapito della comunicazione diretta. Cresciuti nell’epoca dell’Erasmus e dei voli low cost, questi ragazzi sono spesso slegati dalla logica del posto fisso guardano alla carriera in una prospettiva internazionale. Una fonte di insoddisfazione tipica riguarda l’orario lavorativo: i tempi rigidi degli uffici e certe liturgie aziendali, come le riunioni-fiume, possono essere motivi di frustrazioni e performance ridotte. Chi è nato intorno al passaggio di secolo potrebbe invece apprezzare i margini di libertà assicurati da una postazione remota o da un orario smart.
La diversità? Una forza
Prima che le incomprensioni nate da banali differenze anagrafiche si cronicizzino in antipatie personali o diminuzioni di produttività, la formula magica della comunicazione “anagraficamente corretta” è saper riconoscere e rispettare le peculiarità di ogni generazione, aggiornando, se necessario, le policy aziendali. Le aziende più lungimiranti lo hanno capito, inserendo nei loro bilanci un “indice di diversità”: un parametro che misura l’attitudine ad attingere a risorse umane di estrazione il più possibile eterogenea. Perché la differenza è un valore. Anche quella di età.